mercoledì 9 dicembre 2009

Foreste, non alberi da taglio


di Marinella Correggia
DA TERRA TERRA - Il Manifesto

Il taglio di 13 milioni di ettari di foreste ogni anno nel mondo provoca oltre il 17% delle emissioni di gas serra antropiche. Le compagnie forestali sostengono che la riforestazione possa giocare un ruolo nel mitigare il riscaldamento globale assorbendo anidride carbonica; alberi di piantagione dunque come pozzi di carbonio, in grado di compensare le emissioni. Secondo i critici, invece, in Brasile, Uruguay, Argentina le dette compagnie stanno tagliando foreste naturali e trasformando praterie in piantagioni di eucalipto, pini e altri alberi non autoctoni a crescita elevata, per sviluppare la produzione di legno, polpa di pegno e carta su larga scala.
Nelle scorse settimane organizzazioni di donne rurali e gruppi ambientalisti (fra cui il World Rainforest Movement-Wrm) nella regione hanno cercato senza successo di farsi ascoltare, con una dichiarazione presentata al Tredicesimo congresso forestale mondiale tenutosi a Buenos Aires sotto gli auspici della Fao con settemila partecipanti da 160 paesi. Le «soluzioni verdi al cambiamento climatico» sono state ovviamente al centro dei dibattiti. I gruppi industriali hanno sostenuto che le foreste naturali non possono più coprire la crescente domanda di legno e che occorre aumentare le «harvested forests» (potremmo tradurre con «foreste da raccolto»). E la causa della distruzione delle foreste naturali non sarebbe questa espansione di alberi coltivati bensì l'espansione della frontiera agricola. Il Congresso forestale si è concluso con un consenso intorno a due obiettivi: zero deforestazione entro il 2020, e ricerca di alternative per aumentare la produzione di legname.
Ma gli attivisti non sono d'accordo; nel loro documento, come riporta Inter Press Service, dichiarano: «Noi rifiutiamo le piantagioni monocolturali e i progetti di pasta di legno e cartiere, per il loro impatto negativo sulle vite delle famiglie rurali, spinte a vendere le loro terre agricole e a migrare in città, per i pochissimi e precari lavori che vengono creati, per l'esaurimento delle risorse idriche (anche se in effetti dipende dalla pluviometria delle aree interessate), il degrado della fertilità dei suoli e anche il degrado del tessuto sociale». Il documento è stato ignoato dai partecipanti al Congresso forestale.
Lo studio «Brasile: donne ed eucalitpi, storie di vita e resistenza» stima che in Brasile le piantagioni da taglio coprano già oltre cinque milioni di ettari. Nello stato di Espírito Santo, la compagnia Aracruz Celulosa ha piantato 128.000 ettari su terre di indios e di quilombola (le comunità di afrodiscendenti); c'erano in quell'area 40 villaggi, ora ne sono rimasti sette e delle 10mila famiglie quilombola ne sono rimaste 1.200.
L'Uruguay ha circa un milione di ettari di foreste da raccolto. Rispetto alla superficie totale del paese, di 17,6 milioni di ettari, non sembrerebbe tanto, ma l'impatto sugli ecosistemi e sulle donne rurali non è indifferente. In Argentina le monocolture arboree sono cresciute di oltre un milione di ettari e se ne prevede un forte aumento nei prossimi anni; il governo accetta l'idea che così si combatte il cambiamento climatico. Ma le attiviste e il Wrm sostiene che puntare su questo tipo di «pozzi di carbonio» è uno al solito uno degli escamotages per non tagliare drasticamente le emissioni.
Rimane l'impasse: se si dà per scontata e irriformabile la domanda globale di legname da carta e da costruzioni, e al tempo stesso occorre proteggere le foreste naturali anziché tagliarle, dove si troverà la materia prima?

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