lunedì 25 giugno 2007

L'FK Rudar si gioca la promozione


18 maggio 2007

La squadra di calcio di Breza si chiama “rudar”, che significa minatore. La miniera é importantissima a Breza: mezza città ha lavorato o lavora tuttora nella miniera di carbone all’inizio del paese. Il suo simbolo occhieggia anche nello stemma del comune. E’ una delle più grandi, se non la più grande di tutta la Bosnia e rifornisce la ciclopica centrale elettrica di Kakanj. A Breza metà popolazione si scalda a legna, presa dai boschi, l’altra metà a carbone. Arriva un camioncino, scarica in mezzo alla strada davanti a casa uno o due quintali di carbone. Il padrone pian pianino lo spala in cantina. Per mezza giornata la strada é bloccata. Nessuno se la prende, é normale. La squadra nasce dalla miniera, un pò come la Juventus con la fiat credo. Ricorda un po’ gli “isotopi” di Springfield. Quest’anno ricorrono cent’anni della miniera: quando é sorta in Bosnia c’era l’Impero Asburgico.

Comunque mercoledì la squadretta, che milita dignitosamente in serie C, si giocava la promozione: 1 a 2, e sogni di gloria all’anno prossimo. Mi son fatto coinvolgere volentieri. Sono andato a fare il tifo per il Rudar credendo, da bravo fedelissimo, che potessero fare l’impresa (James mi aveva assicurato di sì). E in effetti la squadra inizia all’attacco, aggressiva, e nonostante il ritorno degli avversari riesce a chiudere in vantaggio il primo tempo. Poi purtroppo un autogol carambolesco annulla il vantaggio.



Le grida selvagge


Infine uno svarione difensivo concede un rigore agli avversari prontamente trasformato. Disdetta! “Mancò fortuna non mancò valore” si dice in gergo militaresco. Il registro non é così fuori luogo. I tifosi, categoria che rispetto ma fatico a capire, sono più simili a una tribù in battaglia che non a sostenitori, pur coinvolti, che assistono una semplice manifestazione sportiva. Quelli di qui non sono in fondo né più brutti, né più cattivi, né tanto meno più ubriachi che altrove. I cori approfondiscono pressappoco quelle due o tre tematiche classiche tipicamente al centro della speculazione ultrà: la nascita del tifoso con la maglia della propria squadra, l’invito a unirsi nella nobile causa di fare un culo così all’avversario e, immancabile, l’antico mestiere della madre o delle sorelle degli avversari. Per le madri uno zelo particolare. Del resto in Bosnia già di suo le orecchie di mamma fischiano di continuo, quasi più che in Abruzzo.

Sono andato tra i più sfegatati, in quella che in uno stadio sarebbe la curva. A Breza ci son gli spalti solo di lato, di cemento sgarrupato. Niente curva. Devo dire che é divertente cantare i cori, che alcuni personaggi sono pittoreschi e che l’iperbolica retorica ultrà smuove gli animi. Alzare la voce e le braccia viene da sé, al gol ti senti esplodere e qualche fischio all’arbitro scappa. Ma perché, mi chiedo, deve essere sempre necessaria tutta quella polizia? Perché un avversario che distrattamente guarda verso la tribuna deve essere minacciato di pestaggio, se non bersagliato con qualsivoglia oggetti? Perché la squadra avversaria, venuta sportivamente ad applaudire la tribuna, deve scappare sotto una pioggia di lattine? Mi hanno parlato del bisogno identitario, della competizione, dello sfogo dell’aggressività, ma diavoloporco continuo a non realizzare come non si possa avere qualche ambizione più elevata che non pestare l’avversario a fine partita. Eppure lo schema si ripete uguale in ogni città del mondo, con ogni squadra. Breza non fa eccezione. A Breza, realtà piccola, si avverte in special modo il paese più frizzante dalla mattina, calmo ma in qualche modo inquieto, teso, all’erta. Bandiere e magliette escono presto per la città. E’ difficile non accorgersi dell’evento. Nessun luogo in città é davvero lontano dallo stadio, e pochi hanno faccende più importanti. Tifosi, anche anziani, già ubriachi quattro ore prima, si compiacciono che un italiano prenda parte alla loro nobile causa, e non mettono in dubbio la gloriosa vittoria del Rudar. Si respira un fermento particolare, un’attesa, una specie di strana laboriosa quiete prima della tempesta. Tutti hanno il biglietto e me lo mostrano, non fatico a trovare chi vien con me sugli spalti. Vado con Haris, trovo Lejla, Alen, James, qualche papà e mamma e un sacco di bambini. Dino, ragazzino che bazzica al Desnek, fa il raccattapalle. Tutte le età e le categorie di persone son rappresentate. I cori iniziano timidi poi più decisi. Oggi a Breza tutti ritrovano nel Rudar un pò del loro orgoglio. La loro promozione forse é sentita come un riscatto per una cittadina che crede poco in se stessa, che guarda Sarajevo come una bambina guarda una signora elegante e raffinata, che vede futuro solo altrove. Il Rudar é forse l’occasione di dimenticare i problemi quotidiani, che qui non di rado vuol dire pane e companatico in tavola, trovare lavoro, o per i giovani cosa fare della propria vita. Nel Rudar forse ognuno vede la propria battaglia con la vita? Come in tutto il mondo per molti sarà anche così. Per qualcuno é solo un gioco.

Cerco di partecipare alla loro “battaglia”, di sentirmi anche oggi un po’ uno di loro anche se sia io che loro sappiamo di appartenere a mondi diversi. Non può che essere così, pur con tutta la buona volontà, l’affetto e l’amicizia che cerco di metterci. E va bene, giochiamo a tifare Rudar. A Breza oggi non c’é Sarajevo, non si pensa al futuro, non c’é altrove: c’é solo il rudar.

Juan Saavedra

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venerdì 22 giugno 2007

il gruppo gite


Il gruppo gite

venerdì 11 maggio 2007

Sabato scorso abbiamo radunato alcuni amici del Desnek. Vogliamo continuare con le gite per i bambini, ma non vogliamo che sia cosa solo nostra. Gli abbiamo così proposto di collaborare con noi. Abbiamo in cantiere ideuzze semplici: una grigliata sulle colline, e qualche gioco coibambini, per il sabato successivo. Più a lungo termine ci aiutano a organizzare i campi di lavoro che vorremmo fare per l’estate. Molti giovani bazzicano il Desnek senza farci granché. Play Station, videogiochi vari, chat e cazzeggio ti risucchiano anche qui. Un paio d’ore alla settimana possono concedercele.

Le riunioni coi bosniaci sono una prova di pazienza. Ci si trova puntualissimi, ma ognuno per i fatti suoi. Ci sono, voglio dire, sono lì, ma uno gioca alla Play, uno controlla ”solo un attimo la posta”, uno beve il caffé ... in una decina di minuti li raduniamo. Si prendono abbastanza a cuore i temi discussi, sono coinvolti, pensano e propongono come risolvere i problemi. Poi ogni tanto uno prende e sparisce per un pò. Il primo che sparisce di solito é andato a cercare un portacenere: oltre il quarto d’ora qualcuno deve per forza fumare. Gli altri che via via si 1 dileguano non si capisce, comunque dopo poco ritornano. Sono molto dispersivi. Cambiano discorso saltando di palo in frasca. Discutono, discutono. A volte sembrano quasi litigare, poi si sorridono e si danno una pacca sulla spalla, o si offrono da fumare. Ogni tanto dichiarano di aver preso una decisione con enfasi, come fossero pronti a scriverlo sul marmo. Basta poco per rimettere in discussione tutto. Il caffè aiuta, ma non fa' miracoli. Sembrano sempre girare attorno alle cose senza mai arrivare al punto. Si concentrano su dettagli trascurabili per un sacco di tempo. Faccio fatica: sono abituato a finire un discorso prima di iniziarne un altro, a chiudere in fretta eventuali parentesi. Il loro modo mi stanca, in capo a un’ora so che avrò mal di testa.



Cambio tattica, cerco di adattarmi. “Sparisco” anch’io qualche minuto a prendere un po’ d’aria, ascolto e contribuisco alle loro infinite parentesi: diciamo una ritirata strategica. Polako, polako (pian piano) come usano dire da queste parti, cerco di ottenere qualche decisione, di dividere i compiti e dare delle scadenze. Loro non sembrano infastiditi dal mio intervento così occidentalmente efficientista. Sembrano quasi docili quando cerco di tornare al punto. Mi prendono un po’ in giro, ma mi seguono. Faccio molta fatica a non sentirmi un po’ “superiore”, un po’ “arrivato ad aiutare i poveri bosniaci poveri e inesperti”. E loro forse fanno a volte fatica a non sentirsi i “poveri e inesperti bosniaci”. Difficile scrollarsi di dosso questa “missione civilizzatrice dell’uomo bianco”, pur con tutte le migliori intenzioni e lo spreco di virgolette. Certe idee sono radicate molto in profondità di quanto. La razionalità per quanto educata fatica ad arrivarci. E’ forse una delle sfide della cooperazione internazionale, una missione scritta nel suo stesso nome “cooperazione”, guardare a chi a bisogno d’aiuto non da maestro, non da padre o da tutore, ma alla pari. Delle relazioni forse, più che degli aiuti.

Juan Saavedra

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giovedì 21 giugno 2007

Ultim'ora: SENTINELLI, IL 50% DEI FONDI IN PIU' A COOPERAZIONE

(AGI) - Roma, 21 giu. - Nel Dpef in discussione bisogna prevedere "un aumento di almeno il 50% dei fondi per la cooperazione allo sviluppo". A chiederlo e' stata la vice ministra degli Esteri con delega alla Cooperazione, Patrizia Sentinelli, all'incontro con la stampa di bilancio sul primo anno della delega.
Nel riconoscere "l'importante inversione di tendenza nella Finanziaria 2006" che ha aumentato gli stanziamenti dell'anno precedente di quasi il doppio portandoli a 600 milioni di euro, la vice ministra non ha usato mezzi termini: "Se non ci sara' un aumento progressivo dei fondi per la cooperazione - ha detto - l'Italia non riuscira' a raggiungere gli obiettivi del millennio e ad arrivare al famoso 0,7 Aps/Pil nel 2015". Per la Sentinelli e' altrettanto "evidente che per rispettare gli impegni presi in sede Onu e Unione europea e fra crescere rapidamente la percentuale di Aps sul Pil (ossia dell'Aiuto pubblico allo sviluppo sul Prodotto interno lordo) "e' necessario l'impegno di tutti i soggetti della cooperazione, compreso il ministero dell'Economia che gestisce i due terzi dei fondi". Per questo la vice ministra chiede anche la costruzione, condivisa tra le Istituzioni, di un "calendario per il recupero del progressivo raggiungimento degli impegni", un'esigenza importante su cui, ha insistito, "occorre iniziare a lavorare da subito per raggiungere la tappa intermedia dello 0,51% Aps/Pil nel 2010". (AGI)

RE.TE si unisce all'appello dell'ARCI



Shaadi, palestinese,è morto ieri a Gaza,
ucciso dal fuoco di cecchini del suo stesso popolo.

Aveva percorso le vie di una città terrorizzata e attonita per chiedere la fine delle violenze in una manifestazione pacifista che ha osato sfidare il dominio delle fazioni armate.

Aveva 20 anni.

Lavorava con il REC, associazione palestinese che da anni sta a fianco dei bambini di Gaza costretti a sopravvivere nell’inferno di una città occupata, assediata, isolata, ridotta alla miseria estrema.

Quaranta anni di occupazione israeliana uniti alla complicità e all’ignavia di una comunità internazionale che è riuscita a deludere tutte le speranze di pace e di giustizia, hanno prodotto l’unico risultato possibile: sulla devastazione sociale ha attecchito la devastazione politica, etica e morale.

Shaadi faceva il clown.

Ogni giorno, provava a regalare un sorriso a i bambini e le bambine a cui è negato da generazioni il diritto all’infanzia.

Noi, che sosteniamo il REC con l’impegno quotidiano dei nostri circoli e dei nostri soci, inchiniamo le nostre bandiere arcobaleno davanti alla vita e alla morte di un vero partigiano della pace.

Ricorderemo Shaadi nelle nostre sedi e nelle nostre iniziative.

Anche in suo nome, chiediamo all’Europa di svegliarsi finalmente dal sonno che genera mostri e di muoversi per fermare il disastro in Palestina.

Al Governo del nostro paese chiediamo di dare ora un segnale forte e inequivocabile che rompa il silenzio assordante del mondo.

Non c’è più tempo. Il tempo è ora.


L’Arci

lunedì 18 giugno 2007

...e mocciosi


venerdì 4 maggio 2007

Gita al lago. Si inizia con un bel ritardo cronico, mi affanno. Due minuti sono già ritardo, venti? mi costeranno una bella ammonizione per me,gli italiani usi e costumi in blocco.

Ma poi no li ritrovo tutti sereni davanti al Desnek. Si sono già abituati, meno male, l’incontro fra culture e la comprensione reciproca: che bella cosa.

Ore 9.30: Partiamo. Pochi ma buoni? Forse. Siamo tre grandi bambini e cinque scatenati sotto il metro e 20 e ben tre quadrupedi a segnare il passo. Ventiquattro piedi in direzione del lago, beh non sono pochi alla fine. Ma soprattutto quel lago non è segnato su nessuna cartina. Perchè? Non vedo l’ora di svelare l’arcano. Andiamo.


A cento metri dalla partenza realizzo che la palla non ce l’ha nessuno. Dietrofront: per fortuna il minimarket ha di tutto e riusciamo a recuperare un supertele. Purtroppo non arriverà neanche a metà strada, l’unico cespugli di 1 rovi è stato bersagliato e colpito. Ovviamente. La truppa cammina allegra e motivata verso le colline. La salita dura un’oretta e qualche, si suda e si ride. Il paesaggio si svela pian piano ma dopo l’ennesimo tornante il sipario si apre del tutto: Le colline a panettone come piace chiamarle a me si perdono a vista d’occhio. Solo boschi. E’ bellissimo. La contemplazione è animata dal vociferare dei piccoli gitanti che mi hanno ormai superata di gran lunga. “Lisa ce la fai?” “Vabbè che sei la più vecchia..” Etc..Ok, fine della contemplazione. Raggiungo con corsetta i piccoli spiritosi e mi metto davanti alla carovana. giusto per smentirli.

Il sentiero si perde e tagliamo due colline e due greggi: inizia la discesa,pendenza 10% e si fa di corsa, per forza.

Quindi al lago ci arriviamo quasi con tuffo di testa. Il lago.

ecco appunto. il mistero del perché non fosse segnato. Lo intuisco dal gran vociare di rane ancora prima di vederlo. E vabbè era uno stagno , alla fine. Incomprensione linguistica o approssimazione infantile? comunque sono tutti soddisfatti della meta. i quadrupedi si lanciano in acqua. anzi uno si lancia e gli altri vengono lanciati! Inutile protestare, il linguaggio animale non è stato ancora codificato del tutto e nel gruppo c’è chi sostiene che ai cani piacciano i tuffi con lancio. Le rane si zittiscono, e sì siamo arrivati. i bambini iniziano a chiedermi se sono contenta che siamo arrivati in mezzo alle rane e a chiedermi perché non mi metto ad acchiapparle. Non capisco. Ma poi sì. Gli italiani qui son soprannominati mangiarane. Ah bene, ma io no le mangio. Comunque ci mettiamo a cercale, vogliono essere sicuri che se le vedo resisto e non le sbrano. Evviva la fantasia. comunque le piccole anfibie, si son nascoste. “Hanno paura di te, che te le mangi..” e beh certo. Mi viene in aiuto una bella biscia d’acqua che con una codata sulla riva fa battere tutti in ritirata. E’ ora di ripartire. e’ stata una bella gita, speriamo in una replica.

Juan Saavedra

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venerdì 15 giugno 2007

TANTI AUGURI!!!!!


Debora Bilò e Salvatore Messineo, soci di RE.TE, il 21 giugno coronano il loro amore e si sposano...

RE.TE. augura loro tanta felicità e gioia..

AUGURI!!!

ottime notizie

Ieri il Ministero ha approvato due nostri programmi presentati da tempo in cerca di un finanziamento: il progetto integrato a BREZA, in Bosnia (da cui scrivono Silvestro e Lisa), e il progetto a sostegno delle comunità quilombolas (originate dagli schiavi neri fuggiti nelle foreste in cerca di libertà) nel Vale do Ribeira, Stato di San Paolo, Brasile!

foto


27 Aprile 2007

Armina ha fatto una cosa stupenda. Nel palazzo abbandonato che la Lotteria Nazionale le ha concesso in uso, ha organizzato una mostra: opere realizzate con foto. Mi spiego meglio ... ogni artista esponeva le foto che voleva, come voleva. Disponendole, montandole liberamente e usando i supporti che meglio credeva. Una, ad esempio, appariva come un albero, fatto di pezzi di legno attaccati al muro e dipinti. A mo’ di frutti, alcune fotografie in A4. Le opere erano molto semplici, e quasi sempre fatte con materiali di recupero. Oppure erano attaccate a qualche parte dell’edificio, o disposte in una sua stanza. L’edificio e le sue parti divenivano così parte delle opere. Quasi sfumava il confine tra le opere e il loro contenitore.





Le opere, molto curate e originali, non sembravano certo fuori luogo
tra sporcizia, calcinacci e muri semicrollati, anzi erano tanto più
interessanti perché “integrate” nell’edificio, che si trovava così
trasformato col suo squallore e il suo abbandono, con la sua decadenza,
in un’opera d’arte. Gli artisti son riusciti in pieno a sfruttare la
forza evocativa dell’edificio. Forse era difficile pensare questo posto
come location per mostre ed esposizioni, eppure questa mostra qui é
stata proprio azzeccata. Avevamo promesso ad Armina di aiutarla, se non
con opere d’arte, almeno a sistemare e a preparare il rinfresco. Armina
ha questa abitudine di accogliere chi visita le mostre o le iniziative
nel suo spazio, offrendo qualcosa da bere. Un gesto ospitale. Portiamo
quindi “il materiale” e ci mettiamo a sbucciare mele per la sangria.
Vengo inviato a comprare insalatiere di plastica. In centro a Sarajevo?
La missione si rivela impossibile, com’era facile immaginare. A mostra
iniziata diamo qualche cambio al tavolo bevande: precedenti esperienze
di ospiti troppo “assetati” consigliano che qualcuno stia al tavolo a
servire da bere. Intanto giriamo la mostra. E’ pieno di gente piuttosto
varia e tutti sembrano apprezzare il lavoro. Piano piano questo strano
luogo prende forma e vive. Ogni volta qualcosa é diverso, qualcosa
migliora.

Silvestro e Lisa

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giovedì 14 giugno 2007

Fiori


Venerdì 20 aprile 2007

L’altra settimana Irfan ha avuto un’idea, di quelle geniali per la loro semplice ovvietà. Avevamo coinvolto un paio di giovani del Desnek per vedere cosa si poteva combinare con i bambini, e per proporre un programma di gite.

Il Desnek sarebbe rivolto a giovani dai 16 ai 30 anni, ma la sua sala computer é affollata di bambini. Aspettano che i computer siano liberi per giocare ai videogiochi. Oppure aspettano di avere il mezzo marco per pagarsi mezz’ora di computer, e intanto guardano gli altri, ficcano il naso mentre leggiamo la posta o parliamo via skype, corrono qua e là. A volte si fanno troppo “animati, e vengono cacciati malamente dal responsabile della sala computer.



Qualcuno é più “teppistello” di altri e a volte cerca di venderci oggetti di qualunque tipo, di provenienza quantomeno sospetta. Questa situazione di “sbando” ci piace poco, soprattutto considerato che molti giovani del centro hanno energie e tempo libero. Così l’altra settimana ci trovavamo in “cancelarija”, ufficio, con Irfan ed Edin, a parlottare di cosa si può fare. Qualcuno mi chiede 1 Dzenan Irfan chi finanzierà: é una domanda abbastanza frequente. Sembra che per qualunque cosa servano soldi, anche per tirarsi dietro quattro ragazzini. Rispondo seccamente che non servono. La domanda non é del tutto ingiustificata in un paese dove il volontariato non é molto diffuso: un pò non c’é la cultura di fare qualcosa per gli altri senza soldi, un pò la gente deve prima portare a casa la pagnotta. Irfan propone di risistemare i vasi di fiori davanti al Desnek. Perfetto: poco costoso, semplice da organizzare e realizzare, vario, perché bisogna andare a prendere la terra, riempire i vasi, zappare e piantare, ma soprattutto remunerativo, perché alla fine si vede e si apprezza il frutto del proprio lavoro.
Domenica mattina arriviamo puntuali, ma i bambini sono già al lavoro. Alla squadra si é aggiunto Dzenan, personaggione forte e atletico (olimpiadi, giochi del mediterraneo, mondiali ...), zappa come una macchina. Ride e scherza sempre, e i bambini lo adorano.
Mi metto al lavoro, ma per ogni cosa che cerco di fare un ragazzino mi strappa di mano gli attrezzi. “jacciu, jacciu”, “faccio io, faccio io”. Ripiego sulla documentazione. Fotografo tutto. Con la macchina digitale non c’é più ritegno. Zappiamo in profondità, poi partono varie spedizioni a prendere la terra, si mischia la terra, si bagna. Al momento di mettere i fiori fa troppo caldo, diciamo ai bimbi di tornare più tardi. Finito il corso di italiano (di cui siamo i temutissimi professori) ci ritroviamo. Fatichiamo a frenare i bambini, e a imporre un ordine estetico dei fiori. Cinque o sei persone lì per caso si prodigano in consigli, come se i fiori fossero il loro mestiere. Ne emergono varie scuole di pensiero. Prevale quella di un ubriacone, esagerato ma innocuo. Vuol fare tutto lui. I bambini ridono, riusciamo più o meno a limitarlo.
I fiori sono piantati. Ora vedremo se resistono al sole, ai temporali, a mani misteriose che strappano o rubano, alla spazzatura lasciata nelle aiuole. Riceviamo i complimenti del presidente, e di alcune signore al balcone. Regaliamo ai bambini mezz’ora di computer gratis, e loro si gettano subito all’arrembaggio.

Silvestro e Lisa

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mercoledì 13 giugno 2007

Sretan Uskrs, Pasqua a Sarajevo


venerdì 13 aprile 2007
Oramai é più d’un mese che siamo in Bosnia. Enrico, venuto in “missione”, ci ha aiutato a fare il punto. Pur assolvendo a tutti i nostri compiti, avevamo l’impressione di essere poco impegnati rispetto alle otto ore giornaliere di contratto.
Ci siam fatti una lista di idee e cose da fare:

1. combinare qualcosa con i bambini che affollano il centro giovani. Sono un po’ abbandonati a se stessi ... cercheremo di tirare in mezzo un po’ altri volenterosi al centroggiovani.
2. cercare di mettere in piedi dei progetti con alcune realtà sportive di Breza, una squadretta di calcio femminile, e il Rudar FK, che milita in serie B.
3. collaborare con Eko Drustvo, un’associazione ecologista di Breza, e con il suo carismatico presidente, Masa.
4. seguire alcuni progetti di percorsi turistici con Jozo, a piedi e in macchina. - cercare possibili fonti di finanziamento per progetti futuri.


Lista lunga, ma non poi impegnativa come sembra. Solo fà un po’ venire “mal di testa” il fatto di avere tante cose, pur piccole, a cui star dietro. imparerò a usare bene l’agenda.



Domenica scorsa era Pasqua. Mi ha colpito come tutti ci tenessero a fare gli auguri, anche, anzi soprattutto, i musulmani. Molti amici e conoscenti mi sorridono, mi stringono la mani, a volte chiedono 1 quale festa sia per noi e infine augurano “sretan Uskrs”, buona Pasqua.
Io ed Enrico siamo andati a messa. Abbiamo evitato la chiesa di Breza. Meglio risparmiarsi gesti che possano essere interpretati: in Bosnia andare a messa può significare prendere parte con i cattolici, quindi con i Croati. Andiamo dunque a Sarajevo, nella cattedrale. Chiesa gremita e illuminatissima. La messa verrà trasmessa in televisione e in chiesa ci saranno 6 o 7 telecamere con cavalletto rotabile. La chiesa é piccola, fa un po’ strano chiamarla cattedrale. Il cardinale comincia, si felicita della presenza della televisione, saluta e augura buona Pasqua ai fedeli, anche a casa. Si rivolge poi ai musulmani, e agli ortodossi. Per questi ultimi la Pasqua quest’anno coincide con quella cattolica. Di solito sono sfasate di qualche settimana perché son calcolate in base a due calendari diversi: quello gregoriano e quello giuliano. Della predica colgo solo qualche parola, e la passione dialettica del cardinale. Verso la fine si infervora, ma conclude con un largo sorriso, bonario e accogliente. Alla fine il coro ci delizia dell’Halleluja di Haendel e usciamo sotto la pioggia.
Prima di tornare dobbiamo passare da Armina, a consegnare un CD. In Bosniaco mi da indicazioni per una vietta dietro la Banca Centrale, piena di ambasciate e di polizia. Mi trovo di fronte a un palazzo abbandonato da molti anni. Dentro é abbastanza disastrato. Esco pensando di aver sbagliato indirizzo, di non aver capito le indicazioni al telefono, invece é proprio questo. Trovo all’interno Armina, con Claudio e Carmela. Sul tavolo un cumulo di stracci, che taglia e cuce per farne di nuovi: un laboratorio di riciclo vestiti usati. Ci racconta un po’ la sua storia: si é da poco laureata in architettura con una tesi su di un edificio abbandonato di Sarajevo. In uno di questi ha chiesto e ottenuto di poter mettere in piedi delle iniziative come piccole esposizioni, spettacoli, laboratori ... piccoli eventi di ogni tipo.
Tutto questo senza un soldo, aiutata da amici e simpatizzanti della causa e attirando anche un certo interesse di radio e televisioni (in Bosnia più accessibili che in Italia). Siamo tornati oggi. Ci siamo messi a dipingere i corrimano delle scale, Lisa, e ad attaccare al muro pezzi di vestiti tipo tappezzeria, io.
Ci piace quest’idea. Ci piace la paziente determinazione di Armina. Ci piace come fa le cose senza molte risorse. In Bosnia tante volte le persone si lamentano, ma non fanno nulla. Aspettano senza prendere iniziative che il governo, il comune, l’organizzazione o gli “italiani” di turno facciano. Ad ogni proposta chiedono chi la finanzierà, senza pensare che non per tutto servono soldi. Armina (nella foto inizio pagina) va avanti, con l’aiuto dei suoi amici o dei volenterosi che passano di lì.

Silvestro e Lisa

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martedì 12 giugno 2007

a Mostar


venerdì 6 aprile 2007
A Mostar piove. Un po’ piove un po’ no, ma abbastanza da sventare i nostri piani turistici. La conferenza per cui siamo venuti si tiene nella parte croata, di fronte all’ambasciata croata. Purtroppo si parla di parte croata e musulmana: la città si trovò nel 1993 al centro del conflitto croato-musulmano. All’inizio croati e musulmani combatterono assieme, vittime dell’aggressione serba. Nel ’93, dopo circa un anno di scontri, si aprì un secondo fronte, sanguinosissimo: croati e musulmani, fino ad allora vissuti assieme in pace si combatterono accanitamente. Nel ’94 firmarono una tregua, ma solo dietro forti pressioni degli stati uniti. L’Erzegovina, e in particolare Mostar, suo capoluogo, rimasero però divise, lacerate in quartieri croati e musulmani.





Storie del genere sono purtroppo la norma in Bosnia: pochissimi
territori avevano prima del conflitto una chiara maggioranza etnica, e
quasi nessuno era abitato da un’unica etnia. Applicare un criterio
etnico di divisione oltre che crudele e insensato, era impossibile.

Conseguenza prevedibile il genocidio, o la fuga in massa. La tradizione
di convivenza etnica qui e’ millenaria, ma talvolta episodi di violenza
e ampiezza sconcertante hanno luogo. È successo durante la seconda
guerra mondiale, è successo negli anni’ 90.

La definizione di “incubo collettivo”, che ho sentito dal nostro coordinatore, Enrico, suona tragica e calzante.

Breza da questo punto di vista è un’isola “quasi” felice. Non si può
dire sia del tutto immune da risentimenti etnici, ma non ci sono
tensioni. Certo Breza è stata bombardata, e pochi riescono a non odiare
chi ti ha bombardato la casa. Nei balcani (ma non solo) la
responsabilità si allarga con molta facilità al gruppo etnico:
responsabili non sono solo esecutori materiali e mandanti, ma l’intero
loro popolo. Molti serbi, o croati, hanno quindi perso il lavoro, o
fanno più fatica a ottenere sussidi, permessi o lavori pubblici dal
comune, ma resta una situazione tranquilla e via via migliore. Nel
complesso qui sembrano poco interessati all’etnia, sembrano voler stare
bene e in pace. Chi gli sta attorno, chiunque sia, alla fin fine gli
interessa poco.



Con i ragazzi del centro giovani, con le donne al centro donne, o con
la nostra padrona di casa capita di parlare della guerra. Non è un
discorso proibito come pensavamo, molti ne parlano spontaneamente. In
effetti è impossibile evitare l’argomento: la guerra è una presenza
invadente in Bosnia.



Usciamo un po’ prima dalla conferenza.



Ha smesso di piovere. Il cielo s’avvia al tramonto tra nubi dense e
scorci azzurri. La luce promette molto bene. Le moschee di pietra
bianca sono illuminate della luce chiara e tenue del tardo pomeriggio,
lavata dalla pioggia. L’aria è fresca. Camminiamo sulle strade
lastricate e luccicanti della città vecchia. Scivolo ad ogni passo sui
ciottoli levigati. Sembra di essere nel ‘500.



Scendiamo finalmente al belvedere sul ponte.



Mi interesso della ex Jugoslavia da diversi anni, e il ponte di Mostar
era ed è la più inflazionata immagine turistica della jugoslavia prima
e della Bosnia poi. Lo hanno celebrato scrittori, artisti, viaggiatori
e architetti. In cinquecento anni di storia ha visto passare acqua,
sangue, cadaveri. Ha visto re, imperi ed eserciti, ma anche anziani
scalzi che vanno a prendere il pane. Ha visto lanciarsi dal suo
parapetto i suoi tuffatori e custodi, che sfrecciano per 22 mt fino
alle acque gelide della Neretva. Ne ho sentito parlare tantissimo,
tantissime le foto che ho visto. Non ho nessuna aspettativa perché so
perfettamente com’è. Solo sono emozionato perché ora ho di fronte un
ponte che non è solo bello da mozzare il fiato, ma che si è anche tanto
riempito di significato da diventare non il simbolo, ma il simbolo dei
simboli di questa terra e delle sue vicende, che han toccato i più
raffinati splendori e le più rozze infamie.



Il ponte non è quello vero. L’originale cinquecentesco fu abbattuto nel
’93 dalle granate dell’esercito croato. Il suo crollo è stato anche
filmato. Questa copia perfetta è stata realizzata nel 2000 con
finanziamenti di vari paesi occidentali.

Silvestro e Lisa

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lunedì 11 giugno 2007

da Breza: U VARDISTU


Venerdì 23 marzo 2007
Vardiste si legge pronunciando la s come sc in sciare. Si scriverebbe Vardište, con la “s” col cappellino. “U” introduce lo stato in luogo, e la “u” finale e il caso locativo. Il serbo-croato, o Croato-Serbo, o Bosniaco, oppure serbo, oppure Croato, o ancora Montenegrino si declina. Già di suo é una lingua “infame”, esagerata di consonanti, e ogni volta devi pensare come finirà la parola che non stai riuscendo a pronunciare. Sette casi, anche cinque consonanti di fila.

In ogni caso Vardiste é un villaggetto che vi consiglio, perso in fondo alle colline intorno a Breza. Accompagna vecchie stalle e fienili di architettura tradizionale a bruttarelle case appena costruite o, peggio, appena ristrutturate: l’edilizia privata in Bosnia è peggio, che in Brianza. Rimane comunque luogo ameno: campagna, agnellini che saltellano, camini fumanti, boschi e colline. Oltre a questo alcune donne ci stanno avviando una cooperativa di accoglienza turistica. Aiutate da prestiti del microcredito hanno ristrutturato alcuni spazi delle loro case per accogliere turisti. Ora Jozo, personaggio di cui si é parlato, tiene un breve corso di introduzione al turismo “village life”. Noi andiamo in visita pastorale alle prime lezioni. Sorridiamo, beviamo caffé, approfittiamo di un dolcetto fatto in casa.



Seguire una lezione in Bosniaco, per quanto parlato chiaramente e con proprietà di linguaggio, non é impresa facile. Per capire (quattro anni di studio ma non sono molto portato) devo rimanere concentratissimo e non perdere una parola. Appena mi distraggo un attimo devo riprendere faticosamente il filo del discorso. Non mi é proponibile perdurare due ore di lezione, per di più alle tre del pomeriggio. Inizio a turbinare di pensieri, a osservare minuziosamente la stanza, ammetto di abbioccarmi un attimo, mi riprendo adrenalinico quando dalla finestra vedo fioccare. La neve, la neve ... per noi che a Natale vogliamo la neve un anno decisamente deludente, frustrante se si somma la passione per la montagna. C’é un bambino che si risveglia dentro quando fiocca di quei fiocchi, grandi, vaporosi, lenti ma inesorabili. Verrebbe voglia di correre fuori, saltare, sorridere della neve che copre veloce il cappotto e pestare le macchie bianche che si allargano in terra. Le colline in fondo si imbiancano, il bianco sfuma sugli alberi spogli. A scendere in macchina fa un pò paura, Jozo va a passo d’uomo. Le strade sulle colline son sporche, e di un asfalto viscido.

A Breza é già pioggia, e il mio entusiasmo finisce. Ci spariamo due kifle (una specie di pane morbido molto salato) e ci infiliamo al Desnek. Internet e cazzeggio. E’ pieno di ragazzi e star con loro significa anche chiacchierare, prendersi in giro, sfidarsi alla play, bere un caffé. Dentro c’é la solita cortina di fumo. Lotteremo per vietare il fumo, visto che ci sono anche bambini. Ogni cosa a suo tempo. Edin, ragazzone diciottenne ben rasato, ingellato e con felpina trendy, scopre la webcam e le foto deformate: ne fa 115. Un’ora a spaccarsi dal ridere col suo amico metallaro. Riesco a farlo smettere e a guadagnare l’uscita. Mi avvio con Lisa verso casa. Soliti 20 minuti a piedi. Fa umido e freschino. Nevicherà? Mi sveglio al mattino seguente. Mentre faccio distrattamente il caffé (alla turca ovviamente) vedo fuori dalla finestra i tetti imbiancati.

Silvestro e Lisa

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giovedì 7 giugno 2007

atterraggio morbido


venerdi 9 Marzo 2007

A Malpensa troviamo ad attenderci un aereo piccolo, sottile e lontano parecchi minuti di pulman dal check-in. Dentro è addirittura claustrofobico, non so dove appoggiare borsa e cappotto, ma tanto ci addormentiamo in pochi minuti. Mi sveglio in tempo per vedere il mare.


Il mare dall’aereo non offre grande spettacolo, se non la sua immensità. Ci vuole però una certa inclinazione speculativa per coglierne aspetti e significati. Valli e montagne, magari innevate, sono più immediate. Aspetto la dalmazia, che ha una storia complessa e interessante. Dopo gli Illiri e la lunga dominazione romana vi si stanziarono popolazioni slave dal VI sec. d.C. Fu poi conquistata dai Veneziani che la controllarono fino all’arrivo di Napoleone. L’impronta italiana é molto forte, e fino alla II guerra mondiale Zara, come l’Istria più a nord, era territorio italiano. Le città sono ricche di monumenti, chiese e opere d’arte, realizzate dall’elite culturale e sociale italiana. Questa abitava nelle città sulla costa. Dominò le popolazioni locali ma senza mai mischiarsi ad esse. Al conflitto città dominante- campagna dominata si sovrappose quindi il risentimento etnico, e questo fu uno dei motivi che rese tanto accanita l’uccisione e la cacciata di centinaia di migliaia di italiani dall’Istria nel dopoguerra.

Poi la Bosnia, che invece non dice nulla: colline e vegetazione rada, in triste giallastra veste invernale, case sparse di cattiva edilizia, qualche colosso industriale abbandonato. Pare disabitata: dall’alto diventa evidente una densità abitativa meno della metà di quella italiana. Impos Poi la Bosnia, che invece non dice nulla: colline e vegetazione rada, in triste giallastra veste invernale, case sparse di cattiva edilizia, qualche colosso industriale abbandonato. Pare disabitata: dall’alto diventa evidente una densità abitativa meno della metà di quella italiana.

Tito vi aveva fatto concentrare una fetta importante di produzione industriale, ma soprattutto quasi tutta la produzione militare: in caso di attacco esterno, della Nato o del patto di Varsavia, si sarebbe arroccato in Bosnia, dove già aveva combattuto la resistenza. La Bosnia nel 1992 era quindi piena di fabbriche d’armi, ma anche di depositi, caserme, aeroporti, bunker antiatomici, basi militari d’ogni sorta. Cerco di ricordare qualche luogo, magari letto su qualche libro di storia … in un modo o nell’altro si è combattuto dappertutto, in una guerra o nell’altra: in Bosnia battaglie e sangue a fiumi, da sempre. Osservo cosa c’è ora, raduno i miei pochi ricordi: ho viaggiato poco in Bosnia, cercherò di farlo ora. Se si hanno bei ricordi c’è da rimanere incollati al finestrino a cercare i luoghi vissuti.

All’aeroporto ci vengono a prendere Alen, con la faccia simpatica e amichevole di sempre, e Leila. Lui é il presidente del centro giovani “Desnek”, uno dei progetti portati avanti qui a Breza. Il Desnek è in centro, occupa un edificio rossastro rimesso a nuovo. Ora dispone di sala internet con cinque computer e una play station, di un ufficio/sala riunioni, e di una sala conferenze/teatro/palestra/un po’ tutto. È sempre animato. Frotte di ragazzini si accalcano davanti alla play agli orari più diversi (a scuola fanno i turni), e pro evolution soccer 6 va per la maggiore. Code di genitori accompagnano per mano i figliuoli al corso di Tae kwon doo in sala conferenze (che funge ora da palestra). Crocchi di giovani si danno il cambio attorno al tavolino, fumando e bevendo caffè, mentre prendono in giro i nuovi arrivati (noi) in slang semi-incomprensibile. Qualcuno più coraggioso, o forse solo più curioso si fa avanti e si presenta. Chiacchieriamo con alcuni di tanto intanto. Iniziano a diventare familiari e ci salutano con pacche sulle spalle. I bambini sono molto interessati a noi: uno mi sorride e mi stringe la mano. Sembra quasi emozionato. Qualche giorno dopo mi mostra fiero la sua scheda di iscrizione al corso di Tae kwon doo, che non mollerà di mano tutta la sera. Altri più sbruffoni: “buonassera, como stai?”, “Milan, inter, juventus”, parolacce varie. I più grandi ridono, continuano a fumare e bere caffè. A volte passano una sigaretta ai bambini: nulla di strano in un paese dove non è vietato fumare da nessuna parte e le Marlboro costano meno di un euro.

Andiamo a bere un caffè … domani andremo in missione al centro donne, e alla cooperativa per l’accoglienza turistica a Vardiste. Poi cercherò di infilarmi in un partita alla Play … Lisa già s’è fatta un nome giocando a pallina nello spiazzo fuori coi ragazzini. Per ora tutto bene …

Silvestro e Lisa

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