venerdì 18 giugno 2010

DAL SITO DI REPUBBLICA DEL 18/6/2010

COOPERAZIONE

Action Aid: "Dall'Italia solo parole"
Dopo le promesse del G8, il vuoto

In grave ritardo rispetto agli impegni per raggiungere gli Obiettivi del Millennio previsti per il 2015. La mancanza di una visione strategica rispetto alla cooperazione allo sviluppo e il rischio di perdere ancora in credibilità

di CARLO CIAVONI

ROMA - Il nostro Paese sta facendo un'altra pessima figura, rispetto al mondo intero. Per rendersene conto basta guardare i grafici prodotti nell'ambito dell'iniziativa "L'Italia e la lotta alla povertà nel mondo", a cura di Action Aid, la Ong che opera in 27 Paesi in tre continenti, con progetti che si propongono di cambiare gli squilibri nelle relazioni di potere all'origine della povertà, che alimentano la consapevolezza e la conoscenza dei diritti delle persone e che sostengono le loro organizzazioni, contribuendo a modificare prassi e politiche ingiuste.

Ultimi in classifica. A settembre, per l'Assemblea generale delle Nazioni Unite Aiuti sarà il momento di valutare quali e quanti progressi si sono fatti per raggiungere gli obiettivi di Sviluppo del Millennio, quando mancano cinque anni dalla scadenza. Obiettivi sanciti a New York dal 6 all'8 settembre del 2000 e che, tra l'altro, prevedono il dimezzamento del numero di persone che soffrono la fame e che vivono con meno di 1 dollaro al giorno; il diritto alla scuola per tutti i bambini; la riduzione di 3/4 del tasso di mortalità infantile rispetto al 1990; l'arginamento del dilagare dell'Aids; il dimezzamento del numero di persone che non ha accesso all'acqua; l'accesso ai farmaci. A poco meno di tre mesi da quell'appuntamento, dunque, il nostro Paese rischia di presentarsi nel gruppo dei più inadempienti, in classifica dopo Grecia, Portogallo, Malta e Cipro, avendo messo a disposizione della cooperazione per lo sviluppo solo lo 0,16% del Pil, a fronte della media europea che è dello 0,44% e dopo il drammatico taglio del 56% avvenuto nel 2009 rispetto all'anno precedente.

La dispersione degli aiuti. L'altro grave aspetto rilevato dal rapporto di Action Aid, oltre a quello della inaffidabilità rispetto agli impegni, è quello della dispersione delle risorse. Una tendenza confermata direttamente dalle organizzazioni che operano in Afghanistan, Libano e Mozambico, citate nel rapporto. Del resto, già nel 2004, l'Ocse aveva raccomandato al nostro Paese di evitare lo sperpero di risorse elargite a pioggia su tante organizzazioni. Che, per la verità, tra il 2007 e il 2008 scesero da 63 a 50, ma che l'anno scorso sono di nuovo diventate 60.

Aumenta la povertà estrema.
Sullo sfondo di tutto questo c'è una previsione drammatica: quella secondo la quale alla fine del 2010, 64 milioni di persone si aggiungeranno a quelle che già si trovano in condizioni di estrema povertà, i disoccupati aumenteranno di 25 milioni, 100 mila persone in più non avranno accesso all'acqua potabile. Di fronte a questo scenario, il governo italiano risulta essere fra i quelli che hanno fatto solo tante promesse e poco altro. Promesse come quelle pronunciate un anno fa, durante il G8, quando l'Italia diceva di voler contribuire con 450 milioni di dollari all'Aquila Food Iniative, di volersi allineare agli altri Paesi per gli aiuti pubblici allo sviluppo, di voler saldare i debiti al Fondo Globale per la lotta ad aids, tubercolosi e malaria. Spenti i riflettori sul vertice, concluso il can can mediatico, il governo italiano è tornato a ignorare la cooperazione allo sviluppo. "Se le parole nutrissero - è detto in un video che accompagna la diffusione del rapporto, che ricorda le promesse fatte al G8 - la fame sarebbe sconfitta".

La crisi economica non c'entra. Action Aid rileva che i mancati impegni negli aiuti non possono essere giustificati con la difficile situazione economica, ma sono da attribuire a precise scelte politiche del governo italiano, scelte che ignorano gli effetti di isolamento e di perdita di credibilità internazionale. Opportunamente, nello studio vengono infatti citati Paesi che hanno al contrario accresciuto i loro aiuti, dimostrando una visione strategica della cooperazione allo sviluppo. Primi fra tutti, gli Stati Uniti e la gran Bretagna che hanno aumentato i loro contributi rispettivamente del 5,4% e del 12%. L'Italia, così, sarà il maggiore responsabile - secondo Action Aid - dell'ammanco di 15 miliardi di dollari per il raggiungimento dell'obiettivo collettivo che l'Unione Europea si era data per il 2010, e cioè portare gli aiuti allo 0,56% del Pil.

venerdì 4 giugno 2010

Le foreste della Fao

da TERRA TERRA, Il Manifesto, 03.06.2010, di GP Polloni

L'ultimo rapporto della Fao sullo stato delle foreste del pianeta nell'ultimo decennio, vede per la prima volta dei risultati positivi: la deforestazione sarebbe calata rispetto al decennio precedente, compensata da una tendenza alla riforestazione, soprattutto in Asia e in Cina. Ma uno studio attento del rapporto della Fao, che è un capolavoro di ambiguità, finisce per far aumentare l'allarme.
Primo, i dati sul calo della deforestazione sono dovuti alla revisione al rialzo del decennio precedente, quando erano mancati dei conteggi in certi paesi. Senza questa revisione, la deforestazione non mostrerebbe nessun segno di recessione. Più inquietante è il paragrafo sulla riforestazione, in cui si dice che «le piantagioni di alberi su vasta scala riducono significativamente la perdita globale di foreste»: in pratica le «foreste piantate» sono aumentate in alcune aree del mondo e questa «afforestazione» compenserebbe le perdite dovute alla deforestazione. Su questi termini - riforestazione, afforestazione, foreste piantate - si gioca una partita tanto cinica quanto cruciale per il pianeta. La Fao infatti considera come foresta il suolo terrestre coperto da alberi: qualsiasi albero, anche le piantagioni di eucalyptus, caucciù o palme da olio. Per le organizzazioni che lavorano alla protezione delle foreste e per i popoli indigeni, il termine foresta designa un'altra cosa, incompatibile con le piantagioni delle grandi imprese di agribusiness: le foreste sono un territorio arboricolo dove crescono specie diverse e dove la biodiversità è sovrana, il ciclo naturale dell'acqua non è manomesso: sono insomma habitat di differenti specie, vegetali e animali - e spesso anche di popolazioni indigene che praticano un uso tradizionale dei prodotti della foresta. La Fao giustifica il suo rifiuto di distinguere fra foreste e piantagioni con l'argomento che «le piantagioni sono un mezzo per controllare la deforestazione e per aiutare a contrastare la pressione esercitata sulle foreste primarie». Eppure salta agli occhi la differenza qualitativa fra un territorio trasformato in piantagione e una foresta primaria: non solo le specie arboricole sono spesso aliene al territorio, ma la monocultura ha perduto qualsiasi caratteristica di biodiversità, sono rare le specie animali, in certi casi i trattamenti chimici e fitoterapici sono costanti, e le popolazioni sono sparite o sono state emarginate. Non solo, pochi mesi fa uno studio pubblicato dalla rivista «Science», mostrava come le piantagioni di caucciù nella Cina del Sud e nel Sud Est Asiatico stiano crescendo esponenzialmente, sostituendosi ad aree forestali primarie e secondarie. Sono piantagioni come queste che la Fao cita nel suo rapporto alla voce «riforestazione». Solo in Cambogia si contano decine di casi di comunità indigene alienate dalle proprie terre a causa di concessioni date a società di agrobusiness. In alcuni distretti del Nord est, il patrimonio forestale si è ridotto della metà, e secondo alcuni ricercatori nel prossimo decennio è destinato a ridursi ancora drasticamente. Al suo posto entrano nelle statistiche della Fao come «foreste» le file monotone di alberi delle piantagioni, senza più un animale o una pianta che non sia quella coltivata, popolate da lavoratori a giornata oppressi da condizioni di lavoro e di vita deprimenti e degradanti. Gli indigeni, veri custodi delle foreste primarie del pianeta, svaniscono insieme ai loro territori.