venerdì 4 giugno 2010

Le foreste della Fao

da TERRA TERRA, Il Manifesto, 03.06.2010, di GP Polloni

L'ultimo rapporto della Fao sullo stato delle foreste del pianeta nell'ultimo decennio, vede per la prima volta dei risultati positivi: la deforestazione sarebbe calata rispetto al decennio precedente, compensata da una tendenza alla riforestazione, soprattutto in Asia e in Cina. Ma uno studio attento del rapporto della Fao, che è un capolavoro di ambiguità, finisce per far aumentare l'allarme.
Primo, i dati sul calo della deforestazione sono dovuti alla revisione al rialzo del decennio precedente, quando erano mancati dei conteggi in certi paesi. Senza questa revisione, la deforestazione non mostrerebbe nessun segno di recessione. Più inquietante è il paragrafo sulla riforestazione, in cui si dice che «le piantagioni di alberi su vasta scala riducono significativamente la perdita globale di foreste»: in pratica le «foreste piantate» sono aumentate in alcune aree del mondo e questa «afforestazione» compenserebbe le perdite dovute alla deforestazione. Su questi termini - riforestazione, afforestazione, foreste piantate - si gioca una partita tanto cinica quanto cruciale per il pianeta. La Fao infatti considera come foresta il suolo terrestre coperto da alberi: qualsiasi albero, anche le piantagioni di eucalyptus, caucciù o palme da olio. Per le organizzazioni che lavorano alla protezione delle foreste e per i popoli indigeni, il termine foresta designa un'altra cosa, incompatibile con le piantagioni delle grandi imprese di agribusiness: le foreste sono un territorio arboricolo dove crescono specie diverse e dove la biodiversità è sovrana, il ciclo naturale dell'acqua non è manomesso: sono insomma habitat di differenti specie, vegetali e animali - e spesso anche di popolazioni indigene che praticano un uso tradizionale dei prodotti della foresta. La Fao giustifica il suo rifiuto di distinguere fra foreste e piantagioni con l'argomento che «le piantagioni sono un mezzo per controllare la deforestazione e per aiutare a contrastare la pressione esercitata sulle foreste primarie». Eppure salta agli occhi la differenza qualitativa fra un territorio trasformato in piantagione e una foresta primaria: non solo le specie arboricole sono spesso aliene al territorio, ma la monocultura ha perduto qualsiasi caratteristica di biodiversità, sono rare le specie animali, in certi casi i trattamenti chimici e fitoterapici sono costanti, e le popolazioni sono sparite o sono state emarginate. Non solo, pochi mesi fa uno studio pubblicato dalla rivista «Science», mostrava come le piantagioni di caucciù nella Cina del Sud e nel Sud Est Asiatico stiano crescendo esponenzialmente, sostituendosi ad aree forestali primarie e secondarie. Sono piantagioni come queste che la Fao cita nel suo rapporto alla voce «riforestazione». Solo in Cambogia si contano decine di casi di comunità indigene alienate dalle proprie terre a causa di concessioni date a società di agrobusiness. In alcuni distretti del Nord est, il patrimonio forestale si è ridotto della metà, e secondo alcuni ricercatori nel prossimo decennio è destinato a ridursi ancora drasticamente. Al suo posto entrano nelle statistiche della Fao come «foreste» le file monotone di alberi delle piantagioni, senza più un animale o una pianta che non sia quella coltivata, popolate da lavoratori a giornata oppressi da condizioni di lavoro e di vita deprimenti e degradanti. Gli indigeni, veri custodi delle foreste primarie del pianeta, svaniscono insieme ai loro territori.

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